TERMINE DI DECADENZA DENUNCIA GRAVI DIFETTI OPERA – RIMBORSO IRAP DEI COSTI PROFESSIONALI – DESTINAZIONE AGRICOLA DEL FONDO NON COMPORTA OBBLIGO DI COLTIVARE

TERMINE DI DECADENZA PER LA DENUNCIA DEI GRAVI DIFETTI DELL’OPERA – DECORRENZA
Il termine annuale previsto, a pena di decadenza, dall’art. 1669, primo comma del Codice civile per la denuncia dei gravi difetti dell’opera appaltata, decorre dal giorno in cui il committente (o l’acquirente) abbia conseguito un apprezzabile grado di conoscenza obbiettiva della gravità dei difetti stessi e della loro derivazione eziologica dall’imperfetta esecuzione dell’opera. Il principio di diritto è stato enunciato dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza 24486/2017, che ha accolto il ricorso dei due appaltatori contro il pagamento a titolo di risarcimento dei danni per gravi difetti dell’opera edilizia loro appaltata a cui li aveva condannati la Corte di Appello di Napoli.

Il ricorso, al primo motivo, enuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 1669, cpv. c.c., in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., in quanto la Corte partenopea ha fatto decorrere il termine di prescrizione dell’azione prevista da tale norma dal deposito della relazione del c.t.u. depositata in giudizio, poiché solo in tale momento il committente avrebbe conseguito un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei vizi e della loro imputabilità agli appaltatori. Per contro, sostiene la ricorrente, in tanto il dies a quo del termine in questione può decorrere da una relazione tecnica, in quanto quest’ultima preceda il giudizio, cioè sia stata compiuta in sede stragiudiziale o di accertamento tecnico preventivo ante causam.  Per la Cassazione è il motivo è fondato: nell’affermare il sopracitato principio di diritto, la suprema Corte “ha, così, cassato la pronuncia del giudice di merito che aveva fatto decorrere il termine decadenziale de quo dal giorno del deposito della consulenza tecnica d’ufficio disposta nel corso della causa di merito – e non anche dalla data della citazione a giudizio dell’appaltatore -, osservando come la proposizione di un’azione giudiziaria introdotta mediante citazione a giudizio non possa non implicare, da parte del committente, l’ormai avvenuta conoscenza dei vizi lamentati, conoscenza che costituisce addirittura un prius logico rispetto alla citazione stessa”.

 

RIMBORSO IRAP DEI COSTI PROFESSIONALI

 

Con la sentenza n. 4235/2017 la Corte di Cassazione si è pronunciata in materia di rimborso IRAP, chiarendo quando questo va negato, precisando quali costi riportati nel quadro RE della propria dichiarazione non danno diritto al rimborso. Il caso esaminato riguardava il ricorso presentato da un professionista nei confronti dell’Agenzia delle Entrate e contrario alla sentenza con la quale nel 2009 la C.T.R. del Lazio aveva confermato la decisione di primo grado di rigetto del ricorso proposto avverso il silenzio rifiuto formatosi sulla sua istanza di rimborso dell’IRAP versata per gli anni dal 1998 al 2001.
I giudici d’appello avevano infatti rilevato che:
“La costante ripetizione negli anni dei costi evidenziati nel quadro RE di ciascuna dichiarazione… può ben assumersi quale indice significativo circa la persistenza dell’elemento di organizzazione quale fattore idoneo alla produzione di reddito aggiuntivo rispetto a quello derivante dall’attività riferibile alla sola persona del professionista”.
Per il ricorrente, i costi riportati nel quadro RE della propria dichiarazione, riguardavano “…beni mobili normalmente utilizzati per l’esercizio di qualsiasi attività libero professionale (autovettura, mobili, arredi e attrezzature di modesta entità); oneri di locazione relativi all’immobile adibito a studio professionale; spese generali e di rappresentanza…”, mentre per la C.T.R. l’esistenza di costi sostenuti e la loro costante ripetizione negli anni rappresentava un indicazione dell’esistenza di un’autonoma organizzazione.
Una precisazione importante della Cassazione riguarda l’onere probatorio:
Trattandosi di istanza di rimborso di IRAP già versata dal contribuente, l’onere di dimostrare la sussistenza del fatto costitutivo della pretesa restitutoria (ossia, il carattere indebito del pagamento e, dunque, l’insussistenza dei presupposti di imposta) spettava al ricorrente (v. ex multis Cass. Civ., Sez. 5, n. 25311 del 28/11/2014, Rv. 633690; Sez. 5, n. 18749 del 05/09/2014, Rv. 632244)”.
Sulla base di questo principio:
Il rilievo secondo cui «la costante ripetizione negli anni dei costi evidenziati nel quadro RE di ciascuna dichiarazione … può ben assumersi a indice significativo», può e deve essere inteso come espressivo del convincimento secondo cui quei dati di per sé non sono, quanto meno, sufficienti a dimostrare la fondatezza della istanza di rimborso, ossia a escludere la sussistenza del requisito di imposta”.

TAR MARCHE – DESTINAZIONE AGRICOLA DEL FONDO NON OBBLIGA ALLA COLTIVAZIONE

Il TAR delle Marche con la Sentenza n.854 del 13 novembre 2017 ha affermato che: “la destinazione agricola del suolo non deve rispondere necessariamente all’esigenza di promuovere specifiche attività di coltivazione, e quindi essere funzionale ad un uso strettamente agricolo del terreno, potendo essere volta a sottrarre parti del territorio comunale a nuove edificazioni, ovvero a garantire ai cittadini l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione urbana” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.12.2016 n. 5334; id. 12.5.2016 n. 1917; 16.11.2011 n. 6049; 27.7.2011 n. 4505; 13.10.2010 n. 7478; 27.7.2010 n. 4920).